L` ECONOMIA DISUMANA

L` ECONOMIA DISUMANA

L` ECONOMIA DISUMANA

Riflessioni di Salvatore Girgenti

Le statistiche spesso ingannano. Se cinque italiani mangiano quotidianamente due polli al giorno, ci diranno che in media sono dieci gli italiani che ne mangiano uno al giorno, ma, in realtà cinque soltanto si abbuffano e cinque faranno la fame. La disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli allarmanti: a livello nazionale si è attestata al 40%, ma al meridione è ancora più drammatica, perché a Trapani è al 90%. Le banche non assumono, le scuole chiamano i supplenti col contagocce, gli enti locali da un ventennio hanno bloccato i concorsi e, prorogando l’età pensionabile, si è tolta anche la speranza di potere trovare spazi occupazionali. Viene da ridire quando i conduttori dei tg nazionali, con volto grave, annunziano che le casse dell’Inps corrono seri pericoli, perché i pensionati stanno superando le forze lavorative. Ma se non si colmano i vuoti negli organici, sostituendo tutti coloro che vanno in pensione, è logico che prima o poi si arriverà ad una situazione certamente preoccupante. Non resta altro ai nostri giovani, come all’inizio del secolo XX, che lasciare la terra natale, accettando la nuova etica del vagabondo. Se questo è uno degli aspetti della globalizzazione, Trapani tra qualche anno sarà una città di vecchi pensionati. E’ un dramma, ma un dramma di cui dovremmo prendere coscienza e valutare le giuste risoluzioni. Negli ultimi trent’anni si è spezzato l’incanto con cui lo sviluppo capitalistico aveva abbagliato l’umanità per oltre due secoli. Lo sviluppo, e con esso l’idea culturale ed etica del progresso, non costituiscono più valori indiscussi e generalmente condivisi. Ogni forma di produzione di merci oggi appare finalmente per quello che è: un modo di consumare risorse sempre più limitate e di restituire rifiuti che ingombrano gli spazi della nostra vita. Il fine sostanziale del meccanismo economico delle società industriali sembra ormai essere l’impoverimento finale per mezzo dell’arricchimento senza fine. Nelle società industriali siamo ormai circondati da una quantità straordinaria di ricchezze, al punto che i loro scarti minacciano la nostra vita quotidiana: eppure nessuna società del passato è apparsa così ossessionata da traguardi produttivi, asservita, come la nostra, al totem della crescita materiale continua. Bisogni così imperiosi, in mezzo a tanta opulenza, assumono necessariamente le fattezze dell’assurdo. Cosa c’è di più paradossale sulla terra dello spettacolo che ci offre oggi la vita dell’economia? Nessuno è più sicuro al proprio posto di lavoro. Conoscenze e mestieri diventano inservibili in breve tempo. Nei prossimi anni nessuno avrà più nicchie in cui rifugiarsi. Dopo tanti secoli di civilizzazione, gli individui si trovano a vivere senza più schemi culturali e simbolici. Si produce per poter consumare e si consuma per poter continuare a produrre. E’ in questo misero e insensato circolo che va precipitando il senso del vivere nelle società industriali. La vecchia formula dell’integrazione sociale postbellica, basata sul lavoro e sul benessere, si è sbriciolata e con la globalizzazione dell’economia e con l’aggravarsi dei conflitti e delle crisi ecologiche e sociali saremo ben presto chiamati a scegliere tra la libertà e la sopravvivenza. Ma, domanda ancora più inquietante: in una società postreligiosa e postindustriale com’è più possibile la coesione sociale e la democrazia? “ Quello che mi sconvolge – dichiarava di recente Alain Touraine – non è l’instabilità o la crisi dei sistemi politici, ma la totale assenza di analisi e di idee nuove. Che cosa fa la sinistra? Tace. Che cosa dicono i sindacati? Sono muti. Che cosa propongono gli intellettuali? Il numero selezionato è inesistente”. Forse tutto ciò è consequenziale per una società che, come sostiene Bernard Henri Levy, si ritiene il frutto naturale di una coppia diabolica: il fascismo e lo stalinismo. Parole,, lamentele che servono a ben poco se non ci poniamo il problema di una riforma della modernità industriale che tenga conto, nei paurosi vuoti della nostra quotidianità, dell’umanità dei singoli individui. C’è stato un buon ventennio di questo dopoguerra, in cui una taciuta e comune convinzione animava il mondo, da Est come da Ovest, al Sud come al Nord, indipendentemente dalle tensioni e dalle nubi di guerra che ogni tanto oscuravano l’orizzonte. Era la sicurezza di essere tutti in una strada che portava al progressivo benessere materiale, alla liberazione dell’umanità da antichi spettri di miseria e di fatica. Era questa la razionalità, la stoffa del sentire comune che ha accompagnato il periodo tra la fine della guerra e i primi anni Settanta: l’epoca più stabile e più prospera dell’intera storia del mondo industriale. Il progresso era una stella polare visibile da ogni angolo della terra. Oggi questo sfondo spirituale di un’intera epoca si è dissolto. Sfide della seconda modernità Finché il benessere ha consentito al mondo occidentale di poter partecipare al consumismo di massa in maniera frenetica e di godere dei cosiddetti “ supermercati turistici della solitudine”, la conflittualità sociale non è mai giunta al punto da rimettere in discussione i diritti di libertà, di appartenenza o di fedeltà. Ma in un periodo in cui il cittadino vede particolarmente messa in discussione la protezione contro la disoccupazione, il disordine sociale e i continui attentati contro la sospirata ed utopica pensione, concetti come integrazione, coesione sociale e senso del dovere rischiano di sfaldarsi. Si ha un bel dire, quando si afferma che il senso dello Stato ha nel cittadino raggiunto una maturità tale da potere reggere ed affrontare qualsiasi momento di instabilità politica o di terremoto sociale. Nulla di più falso. La libertà – ha scritto di recente un sociologo tedesco – si accompagna al benessere: è un benessere guarnito con la libertà a tenere insieme la società. Quali effetti può, dunque, partorire un benessere incerto? Il sacrificio della libertà potrebbe essere la prima tentazione. Non dimentichiamo che Hitler fu il parto della superinflazione e della galoppante disoccupazione che caratterizzò la Germania subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Che gli errori del passato non possano più ripetersi è un mito che va sfatato. Quanti oggi, di fronte allo sfacelo economico e sociale dei nostri giorni, auspicano un governo forte! Molti, addirittura, dopo sessant’anni di silenzio, rispolverano Dino Grandi, che, all’indomani del 25 luglio, manovrava per la costituzione di un governo autoritario costituzionale. Non ci sarebbe nulla di più sbagliato che rompere con la tradizione della libertà europea e occidentale. “ Essa – scrive Beck – rappresenta l’unica fonte da cui potrebbero sgorgare energie creative e il coraggio del rinnovamento necessari ad affrontare le sfide della seconda modernità”. Ma, alla luce del progressivo sfaldamento di una coesione sociale, garantita dal lavoro, la domanda che si pone e sulla quale dovrebbero riflettere intellettuali e politici è semplice: può esistere una democrazia al di là della società del lavoro? E, se si: quale fisionomia avrebbe? Interpretazioni diverse rischiano di essere pericolose, poiché la storia ha una sua logica che non è quella delle umane genti. Salvatore Girgenti