tratto da "Paceco nove" - Ed. La Koinè della Collina
PRIMA PARTE Quella notte era piovuto a lungo pisuli pisuli. Pietro aveva udito la poggia batter monotona sulla finestra. Aveva dormito poco. Non si era mai allontanato da casa, e anche se sperava che quella esperienza di annaloro, che peraltro avrebbe portato in famiglia i soldi che mancavano, potesse essere come un viaggio in America, in qualche modo era turbato dall’evento: dover lasciare sua madre, il fratello, gli amici, la strada…per quanto? e per quale ambiente? Gli metteva dentro un po’ di ansia e d’inquietudine. L’idea di mandarlo a far l’annaloro era venuto allo zio, consapevole che senza uno in casa che guadagnasse stabilmente qualche soldo, dato che il padre era sottoterra da diversi anni e la madre non racimolava abbastanza con il lavoro di cucito, la famiglia non poteva tirare avanti. E Pietro, quando lo zio ne aveva parlato alla madre e a lui, aveva subito accettato: non bastavano i soldi nemmeno per comprare i quaderni: quello grande, che rimaneva a scuola, costava 8 soldi, e 2 soldi costava ogni altro quaderno, e altri soldi costavano i pennini, la bottiglietta con l’inchiostro…soldi che la madre non sapeva proprio da dove prendere. “Da dove li prendiamo?” era una frase che a Pietro risuonava spesso nelle orecchie. Era il 1935 e Pietro aveva undici anni, e frequentava la quarta elementare. Di abbandonare la scuola non gl’importava niente, anzi! ma la famiglia, gli amici…Destinazione, il baglio di D’Alì Codd(r)u-r’oca, a Tamburellara, distante dal paese dodici-tredici chilometri, nel féu di cui era campiere un compaesano: per fare il pecoraio ad anno. La madre e il fratello, in compenso, avrebbero avuto il pave per tirare avanti. Tempi – quelli- di grande e diffusa povertà, che in diversi casi sconfinava nella miseria. Persino la maggior parte del mondo contadino, che pur campava sulla terra, doveva compiere salti mortali per sopravvivere. A parte poche e limitate categorie di cittadini – professionisti, impiegati, in qualche modo taluni commercianti, sensali, artigiani_, vivevano più o meno discretamente i proprietari terrieri e i borgesi, che possedendo o avendo in affitto dei terreni riuscivano a barcamenarsi più o meno bene. Per il resto, fame nera. Felici quei contadini che riuscivano a procurarsi la mància, cioè il grano per assicurarsi il pane e la pasta per l’intero anno; e per il resto cisi arrangiava, secondo il periodo, con zucche, zucchine, patate, ceci, verdure di campo, fave, pomodori, ravanelli e altri facili prodotti della terra, e con le uova, ché le galline, di solito, non mancavano: magari chiuse in gabbie davanti alle abitazioni, o, dove non mancava, nel casalinu; carne, quando c’era la morìa delle galline o a Carnevale, allorché in casa o nel vicinato s’ammazzava il maiale; per frutta, meloni e cocomeri d’estate(i meloni potevano conservarsi sino all’inverno), talvolta mele locali, fichi, raramente melograni e cotogni, spesso niente. In parecchie famiglie, almeno in certi periodi, si mangiava pasta una volta la settimana. I contadini con poca terra a volte seminavano mezza fava, perché l’altra serviva per mangiarla. Anche contadini con una certa specializzazione, come il saper usare l’aratro, accettavano lavori piuttosto umili per risparmiare un po’ di pane: ad esempio, si prestavano a pulire la domenica le stalle di proprietari o burgisi, per guadagnarci una manciata: non appena il lavoro finiva, il proprietario o il burgisi diceva alla moglie: “Pigghiacci u pani”, e il lavoratore riceveva un buon pezzo di pane, con olive verdi e/o formaggio, fichi secchi, ravanelli, cipolle. A volte, i braccianti erano costretti a chiedere a proprietari e burgisi l’anticipo di uno-due decalitri di frumento, che avrebbero compensato più tardi con un lavoro magari maggiorato. Ma torniamo a Pietro. Lo zio, marito di una sorella della madre, lo avrebbe accompagnato con il suo carretto. Non gli era stato difficile trovargli il posto presso quel campiere, perché aveva terre in affitto da Codd(r)u-r’oca, con il diritto di utilizzare il baglio. Per Pietro, ci sarebbe stato il conforto della vicinanza, spesso, di uno di casa. Quando si mossero – era ancora buio -, non pioveva più. Prima, Pietro era andato a baciare sui capelli il fratello che dormiva; e intanto la madre piangeva, silenziosa: quel ragazzo era sveglio, ma anche ciuncu, per la poliomelite che a poche mesi gli aveva storpiato una gamba: il che avrebbe potuto provocargli difficoltà non lievi. Petro adesso, comunque, era piuttosto tranquillo: sia perché accompagnato dallo zio, sia perché attratto dalla prospettiva di un’avventura utile e piacevole. Lo aiutò lo zio a salire a cassetta. Un colpo di frusta al mulo e un secco “Emuninni patruni!”, e via. Sul carretto – per il sonno arretrato e perché cullato dal movimento, e malgrado lo sconquasso delle ruote – Pietro si addormentò. Faceva freddo, e lo zio gli sistemò sopra una coperta. Si svegliò una prima volta per un sobbalzo del carretto su una grossa buca della strada, e notò in cielo pallidi squarci di sereno. Si svegliò definitivamente per i sobbalzi della trazzera, quando ebbero lasciato la strada cilintrata per raggiungere il baglio. foto di Ignazio Bellomo